Status di rifugiato: possibile per il giovane discriminato in famiglia per il colore della pelle
Un trattamento deteriore basato sul colore della pelle, anche all’interno dello stesso gruppo etnico, è una forma di discriminazione, anche perché non solo l’etnia ma anche il colore della pelle può compromettere il godimento o l’esercizio in condizioni di parità dei diritti dell’uomo
Possibile riconoscere in Italia lo status di rifugiato allo straniero che in patria da ragazzo è stato discriminato anche dai familiari per il colore della pelle.
Questa la presa di posizione dei giudici (ordinanza numero 31490 del 3 dicembre 2025 della Cassazione), chiamati a prendere in esame il caso riguardante un uomo originario del Bangladesh, il quale, una volta approdato ancora minorenne in Italia, ha chiesto protezione, riferendo di essere stato discriminato e stigmatizzato in Bangladesh, anche dalla sua stessa famiglia, per il colore particolarmente scuro della sua pelle e per la sua altezza, e di aver subìto maltrattamenti in famiglia, e di aver lasciato la patria quando era ancora 15enne.
Per certificare le ripercussioni subite a seguito della discriminazione operata nei suoi confronti in patria, l’uomo fa riferimento alla propria condizione di salute e, soprattutto, al percorso psichiatrico e terapeutico intrapreso da tempo.
A sorpresa, però, il Tribunale gli nega lo status di rifugiato, pur essendo stato l’uomo vittima in patria del fenomeno del cosiddetto ‘colorismo’, cioè del fatto che in Bangladesh le persone di pelle scura sono oggetto di discriminazione.
Su questo fronte, difatti, per i giudici del Tribunale il quadro è chiarissimo: lo straniero è stato vittima di una vicenda sicuramente drammatica di maltrattamenti e discriminazioni in ambito endo-familiare legati a caratteristiche personali quali, in particolare, il colore scuro della pelle ma anche l’altezza. I genitori, infatti, hanno discriminato il ragazzo sin dall’infanzia rispetto ai fratelli, riservandogli un trattamento deteriore e sicuramente umiliante, per avergli impedito di studiare, di sedersi a tavola con gli altri familiari durante i pasti, facendogli mangiare ogni volta soltanto gli avanzi, costringendolo inoltre a lavorare sin dalla prima adolescenza per provvedere al proprio sostentamento. Tuttavia, il trattamento patito in ambito familiare non ha assunto mai una gravità, una frequenza, una intensità, una pervicacia tali da consistere in una vera e propria persecuzione, sostengono i giudici, o da poter essere considerato un danno grave. Piuttosto, i maltrattamenti subiti dallo straniero per mano dei genitori sono consistiti in comportamenti discriminatori, volti alla sua emarginazione, tali da averne limitato il pieno sviluppo della personalità durante l’infanzia e la prima adolescenza e da avergli recato certamente una rilevante sofferenza psicologica, tanto da indurre il ragazzo, appena 15enne, a partire, con l’aiuto della sorella, per un viaggio lunghissimo che lo ha portato, ancora minorenne, in Italia.
In conclusione, le sofferenze patite in famiglia dal ragazzo, pertanto, nel Paese di origine, unite alla partenza durante l’adolescenza ed all’arrivo in Italia quando era ancora minorenne, ne connotano la condizione di persona affetta da plurimi e peculiari profili di vulnerabilità e che in Italia sta seguendo un percorso psicoterapeutico e si è sottoposto anche a visite psichiatriche. Tutti questi elementi sono, però, sufficienti, secondo i giudici del Tribunale, per il rilascio del ‘permesso di soggiorno’ per protezione speciale.
A fronte delle obiezioni sollevate dallo straniero, i magistrati di Cassazione ‘censurano’ la prospettiva adottata dai giudici del Tribunale a fronte di un racconto ritenuto, come detto, veritiero e terribile, in quanto relativo a maltrattamenti e discriminazioni subiti dall’uomo in ambito familiare e legati a caratteristiche personali quali, oltre all’altezza, il colore scuro della pelle.
In premessa, i giudici di terzo grado richiamano il cosiddetto ‘colorismo’, ossia una forma di discriminazione diffusa in Bangladesh e connessa al colore della pelle delle persone. Proprio per questo, lo straniero appartiene ad un gruppo sociale minoritario, i cui membri condividono una caratteristica innata, cioè una colorazione della pelle più scura, e per questo sono esposti a discriminazioni nel loro Paese di origine. Peraltro, lo straniero ha anche subito violenza domestica da minorenne.
Tirando le somme, gli atti da lui subiti costituiscono atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia.
Evidente, secondo i magistrati di Cassazione, l’errore compiuto in Tribunale, ossia non tenere nella debita considerazione che il trattamento che lo straniero ha subito in famiglia sin dall’età di 11 anni ha comportato la negazione dei suoi diritti fondamentali, come il diritto alla salute e all’istruzione, e del suo diritto alla parità di trattamento, il suo sfruttamento lavorativo. Logico, quindi, catalogare tali fatti come una forma grave di abuso perpetrata durante l’infanzia.
Peraltro, il Tribunale non ha considerato che, a causa del colore della sua pelle, lo straniero potrebbe ancora oggi essere esposto ad atti discriminatori nel suo Paese d’origine ed essere vittima del mancato sostegno da parte della rete familiare. Senza dimenticare, infine, i dubbi sulla capacità dello Stato di appartenenza di proteggere lo straniero da eventuali atti persecutori o trattamenti inumani e degradanti, anche provenienti da privati, cui potrebbe essere esposto a causa di un rimpatrio nel Paese di origine.
Ampliando l’orizzonte oltre la specifica vicenda, i magistrati di Cassazione chiariscono che un trattamento deteriore basato sul colore della pelle, anche all’interno dello stesso gruppo etnico, come quello subito dallo straniero, è una forma di discriminazione, anche perché non solo l’etnia ma anche il colore della pelle può compromettere il godimento o l’esercizio in condizioni di parità dei diritti dell’uomo. Non a caso, anche la legge italiana considera rilevante la discriminazione basata sul colore della pelle, poiché definisce discriminazione il comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, la convinzione e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica.
Peraltro, gli atti di violenza domestica, pur quando si escluda la sussistenza di atti persecutori, sono comunque riconducibili all’ambito dei trattamenti inumani o degradanti considerati ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria dello straniero, qualora risulti che le autorità statuali non contrastino tali condotte o non forniscano protezione contro di esse, essendo frutto di regole consuetudinarie locali, di guisa che si deve necessariamente valutare l’incidenza dei maltrattamenti subiti dallo straniero sullo sviluppo della sua personalità, ed anche la risposta delle autorità statuali a tali condotte.
Questo orientamento è maturato e si è sviluppato facendo riferimento alla ‘Convenzione di Istanbul’, che, pur essendo diretta a tutelare specificamente le donne vittime di violenza di genere subita anche in ambito domestico, considera anche la posizione dei minori esposti a un clima violento in ambito domestico e riconosce che la violenza domestica colpisce le donne in modo sproporzionato, ma che anche gli uomini possono essere vittime di violenza domestica, e che i bambini sono vittime di violenza domestica anche (ma non solo) in quanto testimoni di violenze all’interno della famiglia. Da non dimenticare, poi, che la ‘Convenzione di Istanbul richiama la ‘Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia’, che, a sua volta, impone di adottare ogni misura per tutelare il fanciullo contro ogni forma di violenza, di oltraggio o di brutalità fisiche o mentali, di abbandono o di negligenza, di maltrattamenti o di sfruttamento.
E anche la Costituzione italiana impegna lo Stato a proteggere la maternità, l’infanzia e la gioventù e garantisce che ogni individuo possa svilupparsi adeguatamente all’interno delle formazioni sociali cui partecipa, nell’ambito delle quali deve essere garantito il rispetto dei diritti fondamentali.
Infine, ma non ultimo, proteggere i minori da ogni forma di violenza è un obiettivo fondamentale dell’Unione Europea, che intende promuovere una cultura della ‘tolleranza zero’ nei confronti della violenza contro i minori riguardante qualsiasi forma di violenza, di oltraggio o di abuso, fisico o mentale, di abbandono o di negligenza, di maltrattamento o di sfruttamento.
Tirando le somme, i magistrati di Cassazione sanciscono che i maltrattamenti verso i fanciulli e il loro sfruttamento lavorativo, che ne inibiscono il sano e armonioso sviluppo, sono quindi da considerarsi atti gravi, contrari al complessivo sistema dei diritti fondamentali. Così, in tema di immigrazione, ove tali atti gravi siano dedotti quale causa dell’espatrio, il giudice deve accertare e verificare se il cittadino straniero, che abbia subito nel suo Paese di origine e sin dalla infanzia siffatti maltrattamenti fondati sulla intrinseca debolezza della condizione di fanciullo, ma anche su altre ragioni discriminatorie, resti esposto, anche da adulto, ad atti persecutori o al rischio di danno grave, dai quali lo Stato non possa o non voglia proteggerlo, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato oppure della protezione sussidiaria. Ciò in applicazione della normativa secondo cui il fatto che lo straniero abbia già subito persecuzioni o danni gravi o minacce dirette di persecuzioni o danni costituisce un serio indizio della fondatezza del timore di subire persecuzioni o del rischio effettivo di subire danni gravi, salvo che si individuino elementi o motivi per ritenere che le persecuzioni o i danni gravi non si ripeteranno e purché non sussistono gravi motivi umanitari che impediscono il ritorno nel Paese di origine.